La tecnologia come cura, dal forno al telefono

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Servizio comunicazione istituzionale

17 Aprile 2020

Gabriele Balbi, professore associato in media studies per la Facoltà di comunicazione, cultura e società, ci parla in un breve videomessaggio della tecnologia, nel senso più ampio del termine, come forma di cura in questi tempi di coronavirus.

La "riscoperta" dei forni di casa, gli strumenti musicali strimpellati sui balconi, i walkie talkie tornati in uso per comunicare tra stanze e piani: in questi giorni la tecnologia, digitale e non, ci accompagna nel nostro quotidiano ed è da considerarsi, come sostiene Gabriele Balbi, terapeutica nelle giornate scandite dall’invito #stateacasa.  

“È un contributo che vuole superare il dibattito sulle tecnologie buone o cattive, tema che è già stato messo in luce da vari studiosi come Umberto Eco, che, già nel 1964 notava come i media venissero giudicati in maniera apocalittica-negativa o integrata-positiva" spiega Balbi. Questo binomio si è ripresentato con il digitale, visto come panacea a tutti i mali oppure come nuovo motore di ineguaglianze e sorveglianza. Oggi, con il Coronavirus, la (falsa) polarizzazione di questo dibattito è: preferiamo tutelare la salute o le nostre libertà individuali (su questo tema è intervenuto recentemente lo storico Yuval Noah Harari)?

Balbi invece propone una riflessione partendo dalla più celebre delle sei “leggi” che lo storico della tecnologia Melvin Kranzberg formulò nel 1986: “la tecnologia non è né buona, né cattiva, ma neppure neutrale”. Le tecnologie non si sono dimostrate infatti neutrali in queste lunghe giornate confinati a casa. Anzitutto, usiamo varie tecnologie che già facevano parte della nostra quotidianità e altre le abbiamo riscoperte. Le tecnologie di comunicazione, ad esempio. Ci affidiamo giornalmente a WhatsApp, Skype, Panopto, Microsoft Teams e molti altri strumenti digitali per mantenere una parvenza di normalità, per continuare a scambiarci informazioni e restare “animali sociali”. Ma, ci dicono gli indici di ascolto e le tirature, abbiamo anche “riscoperto” media tradizionali, come la televisione e i quotidiani, forse perché danno sicurezza in un periodo caratterizzato dall’infodemia (una delle quattro parole chiave per capire il giornalismo nella pandemia secondo Philip di Salvo).

L’analisi di Balbi va però oltre le tecnologie di comunicazione e abbraccia la “riscoperta” di altre tecnologie: il forno di casa o gli strumenti musicali, ad esempio. Il Coronavirus ha favorito un ritorno all’uso dei forni, al piacere di cucinare a casa il cibo o al piacere di mettere in comune, senza nulla pretendere in cambio se non vicinanza materiale, le proprie doti musicali. È quindi anche attraverso le tecnologie che, in questi momenti complessi, abbiamo deciso di curare noi stessi e gli altri. “La tecnologia e l’umanità non sono distinte e distinguibili: la nostra umanità è tale anche perché abbiamo a disposizione certe tecnologie, nelle quali ci rifugiamo. La tecnologia non è quindi neutrale, come avrebbe detto Kratzberg, ma palliativa, forse curativa in questo momento. Riusciremmo a immaginarci le nostre giornate in quarantena senza queste tecnologie?” conclude Balbi. Ecco perché la tanto vituperata tecnologia, accanto alla letteratura come già proposto da Corrado Bologna, può costituire una cura, un rifugio, addirittura una sicurezza rispetto ai cambiamenti sociali in corso là fuori casa.  

 

Nei quicklink a lato: se le tecnologie paiono curarci in tempi di Coronavirus, occorre al tempo stesso prendere le distanze dall’idea che esse naturalmente ci “migliorino la vita” (il cosiddetto life enhancing technology). Su questo mito, lanciato e sostenuto da molte aziende digitali anche per propri interessi economici, riproponiamo un recente approfondimento a cura sempre di Gabriele Balbi e Luca Visconti.

 

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