Alla scoperta delle "immagini in movimento"

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Servizio comunicazione istituzionale

24 Settembre 2021

I film sono ovunque. Immaginatevi mentre girate un breve video per i vostri canali social media: nel momento in cui cliccate il pulsante bianco al centro dello schermo, siete autrice o autore del vostro personale film. Se state scattando un "selfie", ne siete anche il protagonista. Siete voi a decidere cosa mostrare, cosa dire e a chi dirigere il vostro discorso.

La digitalizzazione ha reso possibile la produzione di immagini in movimento e la loro diffusione in termini di formato e posizione geografica. Queste hanno anche modificato profondamente questo medium, al punto che ora è necessario ridefinire la sua natura in termini non solo del suo ruolo culturale all'interno della società odierna, ma anche delle sue caratteristiche estetiche. Uno dei fondatori dei Film studies come disciplina scientifica e accademica e vincitore del premio Balzan 2019 in filmologia, il Prof. Jacques Aumont, vuole condurre una ricerca pionieristica in questo campo. Il suo progetto "Aesthetics in the Present: Powers of the Moving Image" cerca di riscoprire l'ispirazione estetica per il presente riportando il focus dello studio sull'artefatto, ovvero le immagini in movimento stesse. Queste rappresentano anche il campo di ricerca del nuovo "Locarno Film Festival Professor for the Future of Cinema and Audiovisual Arts dell'USI, il Prof. Kevin B. Lee. Attraverso le sue opere videomediali e, soprattutto, i suoi pluripremiati desktop documentaries, il Prof. Lee utilizza il video per esplorare le qualità delle produzioni digitali e come queste vengono costruite e funzionano in relazione alla loro diffusione e fruizione.

Per anticipare la prossima Balzan Lecture, che si terrà il 29 settembre 2021 al Palacinema di Locarno, co-organizzata dall'USI e dal Locarno Film Festival, abbiamo incontrato queste due personalità pioniere di questa disciplina per discutere del ruolo delle immagini in movimento e delle sfide future. Trovate in calce la video intervista.

 

Prof. Aumont, il progetto presentato alla Fondazione Balzan si intitola "Estetica nel presente: Poteri dell'immagine in movimento" ("Aesthetics in the Present: Powers of the Moving Image"). Da dove nasce questa idea?

Le riflessioni astratte e teoriche sul cinema sono nate in realtà quando il cinema è diventato un'industria. Tuttavia, è stato solo alla fine degli anni '60 che i film studies hanno fatto il loro ingresso nelle università con un forte gesto inaugurale: mettere da parte la considerazione dei grandi insiemi (generi, star, spettacolo ed economia) e interessarsi alle opere in una modalità analitica immediata. Un quarto di secolo dopo, questa attenzione ai film è arrivata al dettaglio, concentrandosi sulla natura stessa dell'immagine. Da allora, l'analisi cinematografica, rivendicata e praticata da tutti, è riemersa come uno strumento al servizio della storia, della sociologia, delle ideologie e della psicologia, tra gli altri. Tuttavia, i film non hanno cessato di essere una semiotica, come postulato nel 1970, e hanno continuato a coltivare la loro immagine, come si diceva spesso intorno al 1995. Durante questo mezzo secolo di studi cinematografici (filmologie), è diventato sempre più chiaro che l'analisi delle opere cinematografiche è rivolta al luogo in cui tutto si gioca - significato, percezione, affetto - e che l'atteggiamento estetico (che si concentra soprattutto sugli eventi sensoriali) si applica a tutti i film. Per estetica, naturalmente, non intendiamo un'assiologia basata sulle categorie del bello e del gusto, ma piuttosto l'operazione già descritta da Kant, che fa sì che lo "stato estetico" abbia un valore epistemologico. Di fronte all'opera d'arte, come di fronte al mondo naturale, la nostra "capacità di giudizio riflessivo", il nostro pensiero, si basa principalmente sulla nostra sensorialità. Senza di essa, non saremmo in grado di organizzare un contatto razionale con il mondo nella sua variabilità e di cogliere ciò che dice un'immagine. I due secoli che ci separano dal filosofo tedesco hanno complicato queste questioni, con la "perdita dell'aura" diagnosticata da Walter Benjamin, l'"estetizzazione della politica" nelle società totalitarie del ventesimo secolo o, recentemente, la moda della nozione di "creatività". In termini puramente filosofici, hanno allontanato l'estetica dalla sua fonte primaria, la sensazione, dando sempre più spazio alla ricezione dell'opera sensibile, alla sua socializzazione e alle classificazioni artificiali che ne derivano. Senza ignorare i fruttuosi contributi delle correnti filosofiche del secolo scorso, ho voluto ricordare che è la sensazione il fondamento della conoscenza e della comprensione delle opere filmiche e di ciò che il cinema può produrre (i suoi "poteri"). Partire dalla sensazione e dall'immagine per comprendere analiticamente un film non significa arrendersi a potenze inconoscibili e imprendibili, ma al contrario porsi nella prospettiva di costituire una conoscenza del cinema e del filmico. Si tratta, tra l'altro, di riprendere, su altre basi e in altre direzioni, l'impresa che la semiologia aveva iniziato, con i suoi propri strumenti, nel campo della pura significazione. In sostanza, si tratta di analizzare ciò che l'immagine può fare, e di capire come, attraverso il suo stesso "lavoro", ci porta a pensare (cioè a pensare il nuovo). Il progetto che ho presentato alla Fondazione Balzan si articola intorno a tre questioni, ciascuna riassunta in una parola: il pixel, il dettaglio e il presente. Il dettaglio è l'oggetto dell'analisi: una questione ereditata dalla storia dell'arte, in una prospettiva iconografica che mira all'identificazione degli oggetti e alla comprensione del loro ruolo simbolico; l'immagine in movimento aggiunge un valore figurativo proprio. Il pixel: la tecnologia digitale non ha causato una grande rottura nel ritmo della cinematografia, ma è ricca di forme che nessuno sa in che modo saranno ancora film, o cosa inventeranno. Quanto al presente, è difficile immaginare una ricerca estetica che non affronti la questione per eccellenza della forma filmica: produce tempo, è tempo. Di queste tre domande, una viene dal passato, un'altra guarda al futuro, e la terza è senza età; mi è sembrato un buon equilibrio.

 

Il processo di digitalizzazione ha anche modificato il modo e il formato con cui vediamo i film e ha portato cambiamenti riguardo al modo in cui consumiamo e produciamo "immagini in movimento".

Il passaggio dalla pellicola al digitale ha cambiato il modo di produrre film. Ora è possibile fare riprese molto lunghe (o addirittura film in una sola ripresa); le telecamere sono diventate molto mobili, e qualsiasi film può essere modificato a piacimento in post-produzione, in particolare nella fase di compositing. L'arrivo della tecnologia digitale ha ulteriormente trasformato la distribuzione delle opere cinematografiche: ora possono essere viste quasi ovunque e quasi sempre (se non si è troppo esigenti sulla qualità dell'immagine e sulla qualità del rapporto che si stabilisce con essa). È qui che l'esperienza cinematografica è cambiata massicciamente negli ultimi vent'anni: non siamo più lo spettatore descritto nel 1916 da Hugo Münsterberg come una sorta di soggetto sperimentale la cui attenzione, memoria ed emotività dovevano essere messe alla prova. Così, non siamo più lo spettatore della semanalisi degli anni '70, totalmente sottomesso al dispositivo della sala oscurata come prigionieri nella caverna platonica. I film sono diventati visibili a volontà, ci accompagnano ovunque, anche se ciò significa diventare piccole cose che si agitano sui nostri telefoni. La nostra attenzione, spesso discontinua, è diventata anche immediatamente analitica: abbiamo tutti imparato a combinare l'ingresso nella finzione (o nella realtà documentaria) con la posizione di distanza che ci permette di vedere un film come un film.

Tuttavia, questa nuova situazione digitale ha fatto poco per cambiare molte questioni estetiche e semantiche, in particolare quelle dell'analisi filmica e del suo ancoraggio nel dettaglio del film. Il filmico non è un aspetto tecnico del cinema, ma una questione di forma e di invenzione. I film degli ultimi vent'anni hanno imposto universalmente l'immagine digitale, ma non hanno rinunciato a nessuno degli effetti di immagine che il cinema aveva esplorato per un secolo. L'attenzione estetica, quella dello spettatore comune come quella del critico o dell'analista cinematografico professionista, è informata diversamente (il nostro immaginario del cinema non è più lo stesso), ma ha a che fare con oggetti che sono ancora gli stessi: forme, figure, movimenti, colori, luci, giochi di montaggio, ritmi, durate,... Il film lento e il one-take sono nuovi esperimenti, ma hanno solo riportato nel vocabolario comune idee e modi di fare che fino ad allora erano riservati al cinema "sperimentale". Infine, intitolando il mio progetto Estetica del presente, ho evidentemente inteso affermare che, se i discorsi sul contenuto (politico, ideologico, militante) dei film sono perfettamente legittimi nel loro campo, quello dell'azione e della funzione sociale del cinema, lo studio del filmico, invece, si occupa principalmente di questioni più generali. Come ogni riflessione, è ancorata alla storia e deve tener conto al massimo del momento presente, ma non può per questo rinunciare al proprio scopo: capire come si costituiscono le immagini in movimento, cosa ci portano le loro capacità sensoriali e mentali, e con quali mezzi.

 

La lecture di Balzan sarà tramessa in diretta streaming sul sito www.balzan.org 

 

Alla scoperta delle "immagini in movimento" - Kevin Lee - Locarno Film Festival Professor for the Future of Cinema and Audiovisual Arts, Università della Svizzera italiana

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