Al cinema con Marco Müller la scenografia cinematografica della modernità: espressionismo e art deco tra avanguardia e industria

Institutional Communication Service

25 September 2007

Anche quest’anno all’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana Marco Müller tiene un corso di stili e tecniche del cinema accompagnato da una rassegna di film che Müller commenta non solo per gli studenti, ma anche per tutti gli interessati. Il corso e il ciclo di proiezioni si propongono di indagare due momenti chiave nel dialogo tra cinema e architettura.

Le discussioni più fervide sul rapporto tra film e architettura hanno trovato il loro apice, in Europa, e più precisamente nella Germania degli anni della Repubblica di Weimar, nell’invenzione e la messa a fuoco definitiva del “film di stile espressionista”. Più tardi, quando quei registi e scenografi si sono trovati costretti ad emigrare in massa negli Stati Uniti, è all’interno del dibattito sul film moderno che si è allora affermato il concetto della centralità dell’esperienza spaziale. È dunque nella Hollywood degli emigrati europei che stile espressionista e “Art Moderne” (“Art Deco”) hanno potuto fondersi nel progetto effimero (1934-1939) di far esistere un Gesamtkunstwerk che coniugasse davvero arte e tecnologia.

Sono anche gli anni in cui si precisa la nuova figura del “production designer” (che nasce per impulso di produttori e magnati come Samuel Goldwyn e David O. Selznick). Più che i production designers sotto contratto per gli Studios (tra i tanti, vanno ricordati i regni longevi di Richard Day, Cedic Gibbons, Anton Grot, Hans Dreier, Van Nest Polglase e Lyle Wheeler), il production designer della modernità si incarna in Ken (Klaus) Adam.

Nato nel 1921 nella Berlino weimariana, Adam è stato chiamato “il Frank Lloyd Wright delle scenografie noir” e “il William Cameron Menzies della Pop Culture”: nei suoi cinquant’anni di carriera ha saputo assecondare e rilanciare la visione di registi dai percorsi estremamente divaricati (pur se al servizio di grossi budget) – cinque nomi fra tutti: Stanley Kubrick, Joseph Mankiewicz, Herbert Ross, Jacques Tourneur e Terence Young. Lavorando in bilico fra riformulazione dello stile espressionista e cultura pop, Ken Adam ha occupato una posizione unica nella storia del cinema (e dell’inconscio collettivo del XX secolo).

All’Accademia Marco Müller presenterà e commenterà per studenti e interessati sette proiezioni:

  • giovedì 27 settembre 2007, ore 18.30-22
    THEBLACK CAT (1934) di Edgar G. Ulmer
  • giovedì 4 ottobre 2007, ore 18.30-22
    GRAND HOTEL (1932) di Edmund Goulding
  • giovedì 18 ottobre 2007, ore 18.30-22
    42ND STREET (1933) di Lloyd Bacon
  • mercoledì 7 novembre 2007, ore 18.30-22
    TOP HAT (1935) di Mark Sandrich
  • giovedì 15 novembre 2007, ore 18.30-22
    THINGS TO COME (1936) di William Cameron Menzies
  • giovedì 29 novembre 2007, ore 18.30-22
    LOST HORIZON (1937) di Frank Capra
  • giovedì 6 dicembre 2007, ore 18.30-22
    RED SHOES (1948) di Michael Powell e Emeric Pressburger

Le proiezioni si terranno presso l’Aula Magna, al piano terra di Palazzo Canavée (Via Canavée 5, Mendrisio, Svizzera).

Il programma è soggetto a modifiche. Eventuali cambiamenti verranno tempestivamente comunicati.

Prima proiezione:

THE BLACK CAT
di Edgar G. Ulmer, 1934, 66’, Universal

Edgar G. Ulmer (1904-1972) è uno dei più personali autori di movies di serie B americani negli anni dal Trenta al Sessanta e certamente uno dei più stravaganti tra i mitteleuropei emigrati a Hollywood.

Nato in Cecoslovacchia, emigrò a Vienna, poi a Berlino (dove lavorò con Reinhardt e Murnau e co-diresse con Robert Siodmak un film-documentario mitico del realismo tedesco, Uomini di domenica) e infine a Hollywood. Qui egli riuscì a dirigere un solo film per una casa di produzione maggiore (la Universal), un horror d’annata – il 1934 – in cui venivano accostati per la prima volta due mostri sacri del genere: Boris Karloff e Bela Lugosi, rispettivamente reduci dai successi di Frankenstein e Dracula.

Il film è The Black Cat che, con le sue atmosfere espressioniste e i suoi orrori suggeriti, è un po’ l’antesignano dell’horror psicologico che prenderà piede di lì a poco. Costò relativamente poco (circa 100’000 dollari) e incassò tanto (140’000 dollari solo nelle primissime visioni).

La vicenda narra di un medico che, per vendicare la morte della moglie e la scomparsa della figlia, interrompe le gesta criminose di un architetto austriaco, cultore di messe nere e traditore della sua patria durante la prima guerra mondiale.

Ispirato al racconto omonimo di E. A. Poe, il film segue però una sua sceneggiatura, notevole, che ben poco ha a che fare con Poe e con il gatto nero. Deve molto, invece, alla scenografia astratta, quasi futurista di Charles D. Hall e alla fotografia espressionista di John Mescal, grazie alle quali si ha l’impressione che il film si svolga in un’altra dimensione temporale, “prolungamento metafisico, infernale e atroce di una lenta agonia”, come sottolinea Jacques Lourcelles.