"L'ultima speranza sono rimaste le polis". Zygmunt Bauman all'Accademia

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Servizio comunicazione istituzionale

3 Febbraio 2015

L’Associazione Amici dell’Accademia di architettura è stata costituita nel 1996, in concomitanza con la fondazione della stessa Accademia. Suo obiettivo è quello di raccogliere fondi per finanziare borse di studio per studenti meritevoli e per sostenere progetti di sviluppo culturale della scuola. L’Associazione organizza annualmente un incontro pubblico invitando di volta in volta personalità̀ del mondo della cultura e della scienza, con l’obiettivo di estendere i campi di riflessione oltre i confini della disciplina dell’architettura.

Quest’anno, poco dopo gli attentati di Parigi, l’Associazione ha invitato il noto sociologo polacco Zygmunt Bauman, che ha tenuto una conferenza intitolata Multiculturalismo, convivenza, paure, confronto di civiltà̀. La modernità̀ all’indomani degli attentati di Parigi.

Bauman, classe 1925, da sempre uomo "contro", fuggito dai nazisti prima e dai comunisti poi, ha inquadrato i fatti di Parigi nel contesto della sua teoria critica sulla società̀ contemporanea.

Il celebre concetto di "modernità̀ liquida" fotografa, secondo le parole dello stesso Bauman, "l’instabilità̀ del nostro tempo: un liquido è infatti una sostanza che non mantiene la propria forma, al contrario di un corpo solido non ha bisogno di grandi forze per cambiare aspetto e natura; ogni cosa è precaria e le nostre azioni non sono più ‘in vista di’, ma ‘a causa di’; il nostro agire è svuotato di modelli ideali, di progettualità̀ e allo stesso tempo di memoria. Una condizione accentuata dalla crisi economica da un lato e dall’affievolirsi silenzioso della sovranità̀ democratica dall’altro".

Gli attentati di Parigi si inseriscono in questa cornice mettendo drammaticamente in evidenza una delle questioni irrisolte della società̀ occidentale contemporanea, ovvero il tema della convivenza tra identità̀. Nel turbine delle semplificazioni mediatiche e delle strumentalizzazioni politiche, gli attentati mostrano le fragilità̀ del nostro modello di convivenza, in cui gli stranieri (benché́ molto vicini) restano tali, in una sorta di nuova apartheid.

L’inerzia della politica europea su questo tema racconta plasticamente l’empasse delle nostre società̀: il paradigma del multiculturalismo che per anni è stato predicato riferendosi a un’idea di convivenza "politicamente corretta" si dimostra del tutto inadeguato per la gestione delle condizioni contemporanee; il fallimento risulta evidente, in particolare, nella facilità con la quale l’intero Islam è stato in pochi minuti associato all’agire di un gruppo di criminali.

In questo quadro cupo Bauman intravvede una piccola luce, uno spiraglio su cui basare un possibile lavoro per il bene comune: si tratta delle potenzialità̀ che ci offrono la città e la condizione urbana. Mentre i governi "volano alla cieca" disorientati dal nuovo contesto, messi sotto scacco dai poteri fluidi globali, la dimensione della municipalità̀, della piazza e del quartiere restituisce possibile solidità̀ alla politica, riportandola alla sua radice: la polis nella sua dimensione di spazio pubblico, come luogo di incontro e di dialogo di tutti i cittadini – quale che sia la loro provenienza etnico-culturale.

Bauman, citando Benjamin Barber, ci fa notare come la necessaria coabitazione di diverse etnie e dunque la prossimità̀ di diverse identità̀ possa costituire il terreno sul quale lavorare per riallacciare le fila tra politica e poteri, innescando processi nuovi di comunicazione e quindi di conoscenza tra le diverse comunità̀. Le città potrebbero diventare il tessuto di connessione concreta tra le singole espressioni identitarie e la loro globalità̀, superando nei fatti vane promesse di “multiculturalismo” e ciechi radicalismi.

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